Allontanamento dalla casa familiare: è sempre un provvedimento lecito?

Allontanamento dalla casa familiare: è sempre un provvedimento lecito?

Sono sempre delicate, le vicende che coinvolgono una famiglia. Dal punto di vista umano, certamente, ma anche dal punto di vista legislativo. Negli ultimi anni, inoltre, si è fatta strada un’esigenza sempre più forte: la tutela della donna, la protezione della sua incolumità fisica e psicologica. Un’esigenza dettata dalla volontà di porre un freno all’escalation di episodi violenti perpetrati contro le fasce più deboli della popolazione: i bambini e appunto, le donne.

L’allontanamento dalla casa familiare

Tra gli strumenti a disposizione della legge, quello che per primo viene messo in atto è l’allontanamento dalla casa familiare. Disciplinato dall’art. 282 bis del Codice di procedura penale, prevede che l’imputato lasci immediatamente la casa familiare e non vi acceda, senza l’autorizzazione del giudice che procede. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa o dai suoi prossimi congiunti; in particolare, il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti.

C’è però una domanda che, fino a qualche tempo fa, non aveva trovato risposta. O, meglio, sollevava diversi dubbi. L’allontanamento dalla casa familiare può essere ordinato col sussistere di qualsiasi condizione e a prescindere dalle reazioni messe in atto dalla donna al manifestarsi delle violenze

La sentenza n. 9145 / 2019

A dare una risposta è arrivata la sentenza n. 9145 / 2019 della Cassazione, che ha stabilito come l’allontanamento dalla casa familiare possa essere applicato anche quando, alle aggressioni del marito/compagno, la donna risponda con combattività. In caso di maltrattamenti familiari e lesioni aggravate, dunque, il provvedimento si rende necessario al di là della reazione che – a quelle azioni – la moglie/compagna possa avere.

Il Tribunale del riesame di Roma aveva stabilito l’allontanamento di un uomo dalla casa familiare, basandosi sulle immagini tratte dalle telecamere di videosorveglianza poste all’interno dell’abitazione, che mostravano il suo  comportamento brutale. La sua volontà era, infatti, visibilmente quella di vessare, sopraffare e umiliare, prendendo spesso la moglie per i capelli durante le sue aggressioni. L’imputato, opponendosi alla sentenza, si era però rivolto in Cassazione per tre motivi: l’inutilizzabilità delle immagini tratte dell’impianto di videosorveglianza, in quanto sottratte abusivamente dalla moglie dal suo pc, e il fatto che – a suo parere –, le dichiarazioni della moglie non dovevano essere considerate attendibili, in quanto (immagini escluse), da queste non erano emersi elementi di prova idonei a stabilire la sua colpevolezza. Infine, col terzo motivo, contestava l’assenza di un rapporto di soggezione desumibile dei filmati.

Tuttavia, la Cassazione ha rigettato il suo ricorso. Dalle immagini, è risultato ben chiaro come l’imputato manifestasse brutalità, disprezzo e sopraffazione nei confronti della moglie, sebbene questa reagisse con morsi alle braccia e afferramento dei testicoli. Una reazione non passiva, infatti, non rende certo meno grave un sopruso. Ecco, dunque, che l’allontanamento dalla casa familiare si  era reso necessario, per impedire al marito di reiterare quei comportamenti aggressivi e per tutelare la moglie. Che, seppur combattiva, era e resta comunque la parte lesa.

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